A cura di Daniele Benati, Docente di Storia dell'arte moderna.
Carlo Volpe (Bologna, 1926 - 1984) è stato uno dei più rigorosi esponenti del metodo filologico appreso da Roberto Longhi, di cui è stato allievo. Ottenuta la cattedra di Storia dell'arte medievale e moderna nel 1974, dopo un lungo periodo svolto ricoprendo insegnamenti secondari presso l'Istituto di Storia dell'arte, è stato il primo a ricoprire la carica di Direttore del neonato Dipartimento delle Arti Visive (1982), prima della malattia e della prematura scomparsa.
Laureatosi con una tesi su Pietro Lorenzetti ad Assisi, discussa nel novembre 1949 con Roberto Longhi, si distingue subito per i suoi studi sul Trecento italiano, ai quali sa unire una vivace attenzione per altre epoche della vicenda artistica, senza trascurare le esperienze più vive della contemporaneità (Morlotti, Morandi, Cavaglieri, Ruggeri, Licini). Collabora dapprima al "Nuovo Corriere", con interventi e recensioni riguardanti tanto l'arte antica che quella contemporanea. Qui pubblica il Dialogo fra il Caravaggio e un cieco, che Longhi riproporrà su "Paragone" (1951), facendolo seguire dal suo Dialogo tra il Caravaggio e il Tiepolo.
Dopo aver esordito sul n. 13 di "Paragone" con un articolo su Ambrogio Lorenzetti e le congiunture fiorentine-senesi nel quarto decennio del Trecento (1951), viene cooptato da Longhi tra i redattori della rivista, insieme a Francesco Arcangeli, Giuliano Briganti e Mina Gregori. Su "Paragone" interviene regolarmente con scritti volti a indagare la "preistoria" di Duccio di Boninsegna nel cantiere assisiate (1954), gli esordi di Raffaello (1956), la personalità del senese Pietro di Giovanni Ambrosi (id.), gli esiti del soggiorno padovano di Filippo Lippi (id.), aspetti dell'attività di Gentile da Fabriano (1958), Stefano da Verona (1970), Antonio da Viterbo (id.), Lippo di Benivieni (1972), del Maestro di Figline (1973), ecc. Ma i suoi interessi si volgono anche alla pittura delle epoche successive, con affondi sull'età di Controriforma attraverso la personalità di Lucio Massari (1954), sul guerciniano Zalone da Cento (1961) e sul Settecento di Giuseppe Maria Crespi (1957) e di Giacomo Ceruti (1963).
Dal 1958 è accanto a Stefano Bottari, succeduto a Rodolfo Pallucchini in qualità di Direttore dell'Istituto di Storia dell'arte, nella redazione della rivista "Arte antica e moderna", sul primo numero della quale pubblica Tre vetrate ferraresi e il Rinascimento a Bologna, un saggio tuttora di riferimento per il ruolo protagonistico riconosciuto a Bologna nella geografia del Rinascimento padano. In ciò la sua posizione si discosta sensibilmente da quella di Longhi, che nel 1956 aveva pubblicato l'edizione definitiva dell'Officina ferrarese (1934), sostenendo la centralità di Ferrara.
L'iniziativa delle 'Biennali d'arte' voluta a Bologna da Cesare Gnudi lo vede partecipe nel 1959 (Mostra dei maestri del '600 emiliano) e nel 1962 (L'ideale classico del Seicento in Italia e la pittura di paesaggio). Interventi di rilievo sono dedicati a Guido Reni ("Paragone", 1954), ad Annibale ("Paragone", 1959) e a Ludovico Carracci ("Paragone", 1976). Gli interessi longhiani per la pittura 'della realtà' lo spingono a partecipare con entusiasmo alla mostra progettata da Bottari su La natura morta italiana (Napoli, 1964), aprendo un fronte di interessi al quale si manterrà fedele anche in seguito. Con il volume sulla chiesa di San Giacomo Maggiore a Bologna (1967) si fa promotore di un'iniziativa di studio che coinvolge le forze più vive dell'Istituto di Storia dell'arte, così come accadrà nel 1983-84 con i colleghi del Dipartimento e di altre università, chiamati a collaborare alla monografia in due volumi sulla basilica di San Petronio.
Impegnata sul piano della sintesi, senza rinunciare tuttavia alla ricchezza dei contenuti, è la sua collaborazione all'Enciclopedia Feltrinelli-Fischer (1960), che cura insieme a W. Hofmann e per la quale redige la parte relativa all'arte italiana "dalle origini al Settecento". Nel 1965 vede la luce il suo libro più ambizioso, La pittura riminese del '300, in cui viene colta nella sua reale portata la precocità con cui la lezione assisiate di Giotto è declinata dagli artisti di quella scuola. Più tardo, ma connotato da una grande capacità di sintesi, è lo studio dedicato alla pittura bolognese, all'interno del saggio La pittura emiliana del Trecento (1979).
Affermatosi ben presto, insieme a Federico Zeri, tra i maggiori “conoscitori” in ambito internazionale, si distingue per l'impressionante vastità dei suoi interessi, mirati a sollecitare la revisione del quadrante critico di riferimento. L'occasione può essere determinata dalla visita a una mostra, come quelle di Cleveland e di Roma sui pittori caravaggeschi (1972 e 1974), ovvero dalla discussione di opere inedite e da lui per la prima volta restituite al loro vero autore. È quanto accade in seguito al riconoscimento di un affresco Paolo Uccello nella chiesa bolognese di San Martino ("Paragone", 1980), tale da recare non soltanto nuovi argomenti al costituirsi del linguaggio rinascimentale a Bologna, ma anche al ruolo, fino ad allora depresso dalla critica ma a pieno titolo protagonistico, che l'artista ricopre nel seguito fiorentino di Masaccio.
Rispetto alle posizioni di Longhi, Volpe consegue risultati autonomi anche per quanto riguarda la pittura di Raffaello nei suoi rapporti con la cultura veneziana, e in particolare di Giorgione, al quale dedica interventi di grande importanza. Fondamentale risulta altresì la sua riflessione sulla figura di Sebastiano del Piombo, così come sono da segnalare i numerosi contributi alla pittura veneziana del XV e XVI secolo.
Grande didatta, prepara regolarmente le dispense dei propri corsi, dedicati dapprima alla storia della critica d'arte e poi alla pittura tra Umbria e Toscana nel XIV secolo. Di tali dispense, ricche di importanti acquisizioni, solo quella dedicata a Pietro Lorenzetti è stata pubblicata postuma (1989). Numerose sono le mostre alle quali collabora, dall'Arte del Settecento emiliano (Bologna, 1979) al Gotico senese (Siena-Avignone, 1982-83).
Alla fine del 1983 vede la pubblicazione del suo lavoro più impegnato e complesso, Il lungo percorso del 'dipingere dolcissimo e tanto unito' (in Storia dell'arte italiana, V), in cui, riannodando i fili di una riflessione avviata ancora una volta da Longhi, riconosce la centralità della Lombardia nella rielaborazione di modi che, pur elaborati da Giotto in una particolare fase del suo percorso, a Firenze si sarebbero rivelati assai presto perdenti.